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DL 17 luglio 2023 | Intercettazioni per fattispecie di reato che esprimono un’offensività omogenea rispetto a quelle di criminalità organizzata

Brevi considerazioni a margine del decreto-legge approvato dal Consiglio dei Ministri il 7 agosto 2023.

AVV. PIO GAUDIANO

Il fatto è noto.

Il Consiglio dei Ministri, nella riunione del 17 luglio 2023, aveva ritenuto necessaria e urgente l’adozione di una norma d’interpretazione autentica che faccia chiarezza sull’accezione da attribuirsi all’espressione “reati di criminalità organizzata” in relazione al regime di utilizzabilità delle intercettazioni ambientali.

Nella notizia, divulgata dal CDM a mezzo di un comunicato stampa apparso sul sito del Governo, veniva preannunciato l’imminente inserimento, d’intesa col Ministro di giustizia, della siffatta norma interpretativa all’interno di “un decreto legge di prossima approvazione”.

Detto-fatto: nel comunicato stampa del CDM n. 47 dell’8 agosto 2023, si legge che

il Consiglio dei ministri, su proposta del Presidente Giorgia Meloni, del Ministro della giustizia Carlo Nordio, del Ministro della cultura Gennaro Sangiuliano e del Ministro della salute Orazio Schillaci, ha approvato un decreto-legge che introduce disposizioni urgenti in materia di processo penale, processo civile, di contrasto agli incendi boschivi e di recupero dalle tossicodipendenze e dalle altre dipendenze patologiche, nonché in materia di personale della Magistratura, del Ministero della giustizia e del Ministero della cultura”.

Nella parte relativa, segnatamente, alle disposizioni in materia di processo penale, si stabilisce, tra le altre cose,

che la disciplina speciale in materia di intercettazioni per lo svolgimento delle indagini in relazione ad un delitto di criminalità organizzata o di minaccia col mezzo del telefono, che prevede condizioni meno stringenti per l’autorizzazione e la proroga delle intercettazioni stesse, si applichi anche a fattispecie di reato che esprimono un’offensività omogenea rispetto a quelle di criminalità organizzata e, in particolare, ai delitti, consumati o tentati, previsti dagli articoli 452-quaterdecies (attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti) e 630 del codice penale (sequestro di persona a scopo di estorsione), o commessi con finalità di terrorismo o avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis del codice penale (forza di intimidazione del vincolo associativo e condizione di assoggettamento e di omertà che ne derivano) o al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo (associazioni di tipo mafioso)”.

Alla base della scelta di legiferare sul legiferato vi è la sentenza della Prima Sezione Penale della Corte di cassazione, n. 34895 del 30 marzo 2022, che, non prendendo posizione su alcun conflitto ermeneutico e dando atto, anzi, che “L’impostazione seguita dai giudici di merito è errata in diritto, poiché, in primo luogo, allude a un contrasto giurisprudenziale che, a ben vedere, non è dato rilevare”, ha ribadito i principi già affermati dalle Sezioni Unite già con le sentenze “Scurato”, “Petrarca” e “Donadio”, secondo cui, pur dovendosi accogliere “una nozione ampia di ‘delitti di criminalità organizzata’, che valorizza le finalità perseguite dalla norma, le quali mirano a riconoscere uno strumento efficace di repressione di reati più gravi”, va escluso da tale ambito il mero concorso di persone nel reato, dovendosi piuttosto identificare nel reato associativo comune (art. 416 c.p.) il paradigma applicativo di tale definizione, di matrice non giuridica, ma empirico criminologica.

Di qui l’esclusione – già affermata dalla sentenza “Donadio” e ritenuta dalla S.C. estendibile per identità di ratio anche alla materia delle intercettazioni – dal novero dei reati per i quali sia possibile ricorrere allo strumento captativo, pena l’inutilizzabilità patologica del risultato probatorio con esso raggiunto, di tutti i casi in cui il reato non sia stato commesso nell’ambito di un’associazione criminosa, ma sia soltanto aggravato dal “metodo mafioso” ai sensi dell’art. 7, D.L. 152/91; con la dovuta precisazione, anch’essa già ricavabile sin dalla ormai più volte citata sentenza “Donadio”, che “non conta, in assoluto, la situazione specifica del singolo indagato, ma la sua collocazione nell’ambito di un procedimento di criminalità organizzata in cui a taluno degli indagati siano state mosse contestazioni di tipo associativo”.

La conclusione che se ne trae è dunque che la giurisprudenza, ben prima della sentenza della I Sez. Pen. n. 34895/2022, era già univocamente orientata nel senso di attribuire un significato ampio e non ristretto alla formula di “delitti di criminalità organizzata”, riferendola però specificamente, in ossequio al principio di tassatività (che è condizione imprescindibile per il rispetto del diritto inviolabile alla riservatezza ex artt. 2, 13, 14, 15 Cost. e artt. 7 – 8 CEDU), ai soli delitti associativi – pur se ricompresi nei commi 3-bis e 3-quater dell’art. 51 c.p.p. – o, comunque, ai soli “procedimenti di criminalità organizzata”, nel senso già chiarito dalla sentenza “Donadio”.

La nuova norma, dunque, in aperto contrasto con quanto sino ad ora affermato dalla giurisprudenza di legittimità, rende suscettibile di legittimare il ricorso alle intercettazioni tutta una serie di delitti, tutti per il vero già inclusi nell’art. 51 co. 3-bis c.p.p., a prescindere, però, dalla loro perpetrazione nell’ambito di un’associazione per delinquere e in ragione, anzi, della loro “omogenea offensività” con le fattispecie invece espressive della criminalità organizzata.

Sicché, se secondo i Giudici di Piazza Cavour (il riferimento non è solo alla sent. n. 34895/2022, ma anche alle Sez. Un. “Scurato”) la lettera della legge andava interpretata nel senso dover ricercare, comunque, nella “criminalità organizzata” il massimo comune denominatore delle fattispecie, o quanto meno dei procedimenti, per i quali fosse possibile ricorrere all’uso delle intercettazioni (fatti salvi, ovviamente, gli altri criteri individuati dall’art. 266 c.p.p.), secondo la norma di interpretazione autentica, contenuta nel D.L. annunciato dal CDM n. 47 dell’8 agosto 2023, anche i singoli delitti in essa elencati, commessi o meno nell’ambito di un’organizzazione per delinquere, potranno ora legittimare l’impiego di tale strumento investigativo.

I problemi che a tal punto si pongono non sono affatto di poco momento.

In primis, occorre soffermare l’attenzione sulla reale portata, interpretativa o innovativa, della norma in disamina.

La Consulta ha da tempo chiarito che “il legislatore può adottare norme di interpretazione autentica non soltanto in presenza di incertezze sull’applicazione di una disposizione o di contrasti giurisprudenziali, ma anche quando la scelta imposta dalla legge rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario, così rendendo vincolante un significato ascrivibile ad una norma anteriore” (C. cost. n. 271/2011).

Quel che è certo, dunque, è che la norma, per essere di autentica interpretazione, non può modificare nulla del diritto esistente e deve intervenire per dirimere un contrasto, o per specificare il contenuto di un precetto normativo già presente.

La norma in commento non presenta tali caratteristiche: come già visto, infatti, la sentenza n. 34895/2022, non a caso qui definita quale fonte di un problema di fatto inesistente, non fa altro che ribadire i principi già espressi, anche a Sezioni Unite, dalla Corte di cassazione.

Inoltre, attraverso l’uso della congiunzione “anche”, in relazione alle fattispecie ritenute espressive di una omogenea offensività rispetto a quelle “di criminalità organizzata”, la norma di nuovo conio lascia chiaramente trapelare il suo fine di aggiungere qualcosa rispetto al passato; ovverosia che oltre ai reati di criminalità organizzata, pacificamente già inclusi nella littera legis, ve ne sono adesso altri, prima non compresi nell’elencazione normativa (neppure nel senso ampio accolto dalla giurisprudenza di legittimità), rispetto ai quali le intercettazioni pure potranno operare.

Altro problema attiene all’ambito temporale di applicazione della norma in commento.

Se fosse una autenticamente interpretativa, non dovrebbero esservi particolari dubbi circa la sua retroattività. Eppure, nella versione trasmessa attraverso il comunicato stampa di ieri, appare una disposizione transitoria che “stabilisce che le nuove disposizioni si applichino anche ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del decreto-legge”.

Ora, è principio a tutti ben noto che la retroattività delle norme interpretative è ammessa a patto che vengano preservati i più basilari principi di civiltà giuridica, quali la certezza del diritto e il legittimo affidamento dei cittadini (C. cost. n. 166/2012).
La ragionevolezza, dunque, è la lente attraverso cui va letta l’effettiva portata interpretativa o innovativa della norma e, conseguentemente, la possibilità che essa retroagisca.

Anche tale requisito, a ben guardare, difetta nella norma in commento.

In disparte alle già avanzate perplessità circa l’emanazione di una norma di interpretazione autentica volta a chiarire il significato di un precetto già chiaro nella giurisprudenza di legittimità, vi è il dato per cui la già più volte citata sentenza n. 34895/2022 della Corte di cassazione, a cui fa riferimento il Comunicato Stampa del CDM di luglio scorso, risale a un anno e mezzo fa.

Allora ragionevole è domandarsi se sia o meno, ragionevole, che un intervento legislativo, dagli effetti dirompenti sul sistema delle intercettazioni e recante solo la maschera dell’interpretazione autentica, emesso ad oltre un anno dalla miccia che avrebbe fatto esplodere il dissidio – di fatto mai neppure innescato! – possa trovare applicazione ai procedimenti penali già in corso, con l’effetto di rendere utilizzabili captazioni patologicamente inutilizzabili.

Mala tempora currunt.

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